A CINQUE ANNI DALLA PANDEMIA… IO SOPRAVVISSUTO SENZA MERITO
Il 18 marzo 2020 sono passate sotto i nostri occhi le immagini televisive, incredibili e sconvolgenti, del convoglio militare stracarico delle salme di uomini e donne uccisi dal Coronavirus nei paesi della bergamasca: sequenze drammatiche che confermavano, con sfacciato realismo, l’estrema gravità della situazione.
In quelle ore l’infezione aveva ampiamente contagiato anche Soresina e i Soresinesi, di cui ero parroco: trascinandoci in una sorta di “tempo sospeso”, cioè in giorni e settimane di reclusione totale, di paure incontrollabili, di lutti senza numero, di immenso dolore. Ma anche di straordinaria solidarietà.
La data tragicamente indimenticabile del 18 marzo è stata “istituzionalizzata” in Italia per mantenere viva, ogni anno, la memoria delle Vittime da Covid-19. E la coscienza della responsabilità che deriva dall’essere “sopravvissuti alla strage”. E senza merito. Una consapevolezza che mi è stata chiara fin da subito e che, all’epoca, ho condiviso con la mia Comunità attraverso una “lettera aperta”: a cinque anni di distanza, per non dimenticare, rileggo quelle parole… non senza commozione e con la stessa inguaribile lucidità.
«Quando penso all’esercito di Soresinesi… che, in queste settimane, si sono confrontati, in un vero duello, con il virus maledetto o, addirittura, hanno capitolato sotto i suoi colpi impietosi e imprevedibili, non posso non considerarmi… un sopravvissuto. Anzi, un graziato. E senza merito.
Mi ritrovo talvolta – spaventato fino ai brividi – ad immaginarmi abbandonato in un letto di terapia intensiva, inabile a tutto, dipendente per ogni più elementare necessità, con un tubo di plastica in gola e collegato ad una “macchina” cui è affidata la resistenza del filo sottilissimo che lega la mia anima al corpo: per garantire il mio respiro, e quindi l’ossigenazione del mio cervello, la “tenuta” del mio cuore, l’efficienza degli altri organi vitali… Non ho difficoltà, pertanto, ad immedesimarmi nella condizione di chi, invece, in maniera diretta o per condivisione familiare, una simile terribile esperienza l’ha vissuta davvero, restandone “marchiato” indelebilmente… E mi sento addosso anche lo sconforto e la ribellione di quanti, in questa guerra piena di insidie e di “imboscate”, hanno perso i propri cari e, in un certo senso, sono caduti sul campo di battaglia insieme a loro.
Sì, mi considero un sopravvissuto: e – lo ribadisco – senza averne né il diritto né il merito. Non sono più sano e più forte degli altri. E neppure migliore. Non sono indispensabile in questo mondo. Neanche a Soresina. Non mi ritengo un “fedele di prima classe” al cospetto di Dio: Egli non ha alcun debito con me e io non ho crediti da rivendicare. Se oggi sono ancora qui, mentre altri sono stati “trapiantati” altrove, è solo ed esclusivamente… per grazia.
Sono un sopravvissuto. Me lo ripeto con insistenza. Mi fa bene. Mi libera dalla presunzione di sentirmi il padrone dei miei giorni. E dalla tentazione di rinviare a tempo indeterminato l’analisi dettagliata del bilancio di sessant’anni di vita. Sono un sopravvissuto. Pensarlo mi aiuta. Anche se il rammarico per chi non c’è più provoca in me, anzichè l’ebbrezza della vittoria per lo scampato pericolo, una sorta di senso di colpa. Non so fino a quando, ma sono un sopravvissuto. Lo dico a me stesso e, soprattutto, a Dio. Con riconoscenza. E consapevole della responsabilità che comporta.
Io e voi, dunque, sopravvissuti senza merito, portiamo delle precise responsabilità nell’avvenire. Innanzitutto quella di non dimenticare. Nel tempo dell’epidemìa abbiamo scoperto che sono le piccole cose, cioè le azioni quotidiane, i semplici gesti di gentilezza e di amore, a tenere a bada l’oscurità: ce ne ricorderemo quando la tanto auspicata “ripresa” della vita sociale ed economica ci imporrà di nuovo ritmi accelerati e disumani? Il confronto con il virus, ovvero con una forma di vita del tutto elementare ma potenzialmente – ed effettivamente – letale per noi, ha smascherato la nostra vulnerabilità e ha scritto, con l’evidenza del sangue, nella memoria di ciascuno questa verità infallibile: “Sei mortale!”.
La scoperta di un vaccino, di un antidoto o comunque di un rimedio reinnescherà, nelle relazioni tra noi, l’indifferenza che indurisce, l’arroganza che umilia, l’egoismo che distrugge? Sapremo “custodirci” reciprocamente come stiamo provando a fare nella stagione tragica della pestilenza? “Insieme – ci ripetono i politici fino alla noia – ce la faremo!”. Insieme, appunto. La speranza del futuro, ovviamente, non è affidata alla retorica di una “parola magica” e alla sua ripetizione martellante, ma alla coscienza e all’impegno di chi è sopravvissuto… non per se stesso e non da solo: ma insieme agli altri e per gli altri!».
Ultimo aggiornamento: 15 Marzo 2025